lunedì 28 dicembre 2015

Pandoro


Mentre l'anno scorso mi adoperavo per realizzare un delizioso panettone, quest'anno ho deciso di sfidare la mia piccola creatura, il mio preziosissimo lievito madre, con un altro dolce della tradizione italiana, tipico di Verona, ovvero il Pandoro, che ormai gode un posto d’onore sulle tavole natalizie.
Le origini del pandoro non sono ben note, diffuso durante l'Ottocento è secondo alcuni un derivato del "Pan di Vienna", oltretutto in quel periodo il Veneto si trovava sotto l'influenza dell'impero asburgico. Secondo altri, invece, deriverebbe dal "Pan de oro", un dolce ricoperto da sottili foglie di oro zecchino, che veniva servito sulle tavole dei veneziani più ricchi.
Secondo altri l'attuale pandoro è un'evoluzione del "Nadalin", un dolce diffuso durante il Duecento che per tradizione le famiglie veronesi preparavano per Natale. Inizialmente non era un dolce troppo alto, aveva una forma a stella con otto punte ed era ricoperto da glassa. Successivamente intorno alla fine dell'Ottocento, il dolce cambiò forma, venne alzato, le punte ridotte a cinque e la glassa fu eliminata.
Tuttavia, qualunque sia stata la sua origine, il Pandoro è il risultato di un'invenzione che ha una data precisa, infatti, il 14 ottobre 1884 il pasticcere veronese Domenico Melegatti presentò il brevetto del Pandoro. 

 Probabilmente Melegatti si ispirò al “Levà” un'antica ricetta veronese, un dolce lievitato con una glassa di mandorle e granella di zucchero che le donne preparavano la vigilia di Natale. Il pasticcere rielaborò questa ricetta aggiungendo uova, burro ed eliminando la copertura, che poteva ostacolare la lievitazione. Invece, lo stampo di cottura con forma di stella a otto punte fu creato dall'artista impressionista Dall'Oca Bianca. Secondo una leggenda il nome di Pandoro fu dato dopo che, un garzone, di fronte alla prima fetta del nuovo dolce illuminata da un raggio di sole esclamò stupito: "l’è proprio un pan de oro!".
Per la realizzazione, trattandosi di un lievitato abbastanza complesso è preferibile rinfrescare il lievito madre, questo darà forza all’impasto e verrà un prodotto più alveolato.
Trascorse due ore dal rinfresco il lievito sarà ben maturo, procedete, quindi, con il primo impasto: 

140 g di lievito madre
70 g di acqua
100 g di zucchero
4 tuorli
250 g di farina 0
100 g di burro
Sciogliete il lievito con l'acqua calda, aggiungete poco alla volta lo zucchero, la farina, i tuorli ed il burro. Impastate fino a che la massa sia incordata. Trasferite il composto in un contenitore oliato, coprite con pellicola e lasciate lievitare per dodici ore in un luogo abbastanza caldo (circa 25°).
Per il secondo impasto:
150 g di farina
200 g di panna
un uovo intero
un pizzico di sale
Emulsione:
buccia di un'arancia grattugiata
70 g di burro
50 g di cioccolato bianco
30 g di miele
50 g di zucchero
vaniglia. 

Quando l'impasto avrà triplicato il suo volume, riponetelo in frigo e preparate l'emulsione. Sciogliete il burro con il cioccolato e quando sarà tiepido, aggiungete il miele, lo zucchero, la buccia di arancia e la vaniglia.
A questo punto al primo impasto aggiungete la panna, la farina e l'uovo, lavorate bene ed aggiungete l'emulsione. Quando tutti gli ingredienti saranno amalgamati, trasferite l'impasto in uno stampo imburrato e lasciate lievitare fino a quando non avrà raggiunto il bordo.
Trascorso questo tempo, accendete il forno e fate riscaldare (ricordando di mettere un pentolino con dell'acqua), infornate a 170° per dieci minuti e poi abbassate la temperatura a 160°, continuando la cottura per altri trenta minuti. Spegnete il forno e lasciate raffreddare, spolverate con zucchero a velo prima di servire.
Ammetto che realizzarlo a casa non è così semplice, ma il risultato vi sorprenderà e soprattutto presterete maggiore attenzione alla qualità dei cibi che mangiate, utilizzando materie prime che non subiscono troppi trattamenti e privilegiando quelle locali, evitando, invece, prodotti industriali ricchi di miglioratori e conservanti.
 

domenica 13 dicembre 2015

Occhi di Santa Lucia


Il tempo che è trascorso non è bastato a far dimenticare che il giorno di Santa Lucia, mia nonna materna, con incredibile organizzazione tecnica, passione e amore per il suo lavoro, cominciava a preparare una serie di pietanze per i banchetti regali che la "Contessa" era solita organizzare durante le festività natalizie, con somma gioia degli ospiti che avrebbero, così, potuto assaggiare le cibarie più ricche e deliziose. Pare che questa "Contessa", molto ghiotta di fave e cicoria, fosse oltremodo golosa di piccoli dolcetti ricoperti di una glassa candida come la neve. 
Quando la nonna era indaffarata in cucina a preparare torte e biscotti, intratteneva me e i miei cugini con storie dettagliate di strani personaggi. Non vedevamo l'ora di stare con lei per poter ascoltare una nuova storia, ricca di particolari come se fossimo stati lì anche noi, in chissà quale epoca, ad assistere agli eventi. Non si trattava di favole con il lieto fine. Anzi, molto spesso i personaggi non avevano una vita agevole, costretti a subire lunghe e atroci sofferenze e forse era proprio questo finale non scontato a far apparire più intriganti questi racconti. Il dilemma era: saranno storie vere? …oppure inventate dalla nonna? Con gli anni abbiamo capito che erano storie di santi abbellite per noi bambini. 
Così ogni 13 dicembre mentre, aggiungeva alla farina, vino bianco ed olio caldo, la nonna ci raccontava la storia di una fanciulla di nome Lucia, una bella ragazza proveniente da una buona famiglia e destinata in sposa ad un giovane del paese. Poiché la mamma era gravemente ammalata, Lucia ne invocò la guarigione sulla tomba di Sant'Agata che, ascoltando le sue preghiere, le chiese di dedicare la sua giovane vita all'aiuto dei più poveri e deboli.
Tornata a casa, Lucia trovò la mamma guarita, pertanto ruppe il fidanzamento e decise di donare tutta la sua dote ai più poveri. Il fidanzato arrabbiato decise di vendicarsi, denunciando pubblicamente quella che avrebbe dovuto essere la sua futura sposa, con l'accusa di essere cristiana. Durante l'impero di Diocleziano vi era la persecuzione dei cristiani, pertanto, il prefetto dell'epoca Pacasio la sottopose a diverse prove di umiliazione e torture per costringerla a convertirsi: cercò di farle perdere la sua virtù, di farla maltrattare dai soldati, la fece trascinare da due buoi lungo le strade del paese, tentò di ustionarla con olio bollente, di bruciarla viva al rogo. Infine, dato che niente di tutto questo riusciva a smuoverla, venne sgozzata con una spada. 
Quando l'impasto era pronto, la nonna cominciava a preparare gli “occhi di Santa Lucia” dolci la cui forma ricorda un piccolo occhio umano e raccontava così un'altra leggenda, secondo cui un ragazzo innamorato di Lucia chiese i suoi occhi in regalo perché abbagliato dalla loro bellezza. Lucia acconsentì al regalo, ma gli occhi le ricrebbero più belli ed il ragazzo chiese in regalo anche questi, ma la giovane rifiutò, così venne da lui uccisa con un coltello nel cuore. 

La ricetta per preparare gli occhi di Santa Lucia è molto semplice, vi occorrono: 
500 g di farina 
100 ml di vino bianco 
100 g di olio 
un pizzico di sale 

Per la glassa: 
un albume (60 g) 
100 g di zucchero a velo
essenza all’arancia 

In una ciotola unite la farina, l'olio caldo, il vino e un pizzico di sale. Impastate fino ad ottenere un panetto sodo e abbastanza elastico.
Prelevate poco impasto alla volta, formate dei cilindri di 1 cm di diametro lunghi circa 7 cm. Unite le estremità e realizzate dei taralli allungati cercando di formare degli occhi.
Posizionateli su una teglia rivestita con carta da forno e cuoceteli a 180 °C per circa 20 minuti. Sfornateli e fateli raffreddare. 
Per la glassa: montate a neve l'albume, aggiungete poco alla volta lo zucchero a velo e l'essenza di arancia. Mescolate fino ad ottenere una glassa liscia e densa. Immergete gli ochietti nella glassa e fateli asciugare.
Si tratta di dolcetti friabili, leggeri, molto profumati, fatti con ingredienti semplici e preparati per ingentilire le tavole ed i palati dei nobili del tempo.

lunedì 7 dicembre 2015

Tree of life

Ho sempre pensato che l’albero fosse una metafora perfetta per la nostra crescita spirituale, così forte, imponente, capace di trasmettere un senso di trascendenza, di mistero e di energia spirituale.
È l'unico essere vivente che continua a crescere per tutta la sua vita ed è un modello per raggiungere il vero sé e il dispiegarsi della psiche e dello spirito. Man mano che cresciamo, sviluppiamo una personalità più grande, questa emerge più matura ed inizia a fare fiori e frutti, fornendo i suoi doni al resto del mondo.
Il verde delle foglie che stimola Anahata il chakra del cuore dove risiede la scintilla divina che c’è dentro ognuno di noi, qui si trova la nostra natura illuminata, il nostro sé, la porta d’accesso dell’anima. Ogni forma d’amore ha origine qui, sia che si tratti dell’amore nei confronti di un’altra persona, che dell’amore incondizionato che ci lega all’universo.
Attraverso i rami, che incredibilmente agili possono crescere in contorsioni che sfidano la gravità, gli alberi sono sempre alla ricerca di più luce, di più libertà, di più nutrimento. Questo ci insegna a non porre dei limiti, un ramo crescendo trova sempre un modo per superare gli ostacoli, allo stesso modo l’uomo deve espandere la sua consapevolezza e non bloccare la crescita spirituale.
La corteccia esterna, così dura e ruvida protegge il tronco dalle crudeltà del mondo, mentre all'interno vi è un intricato sistema di circolazione e di flussi energetici. Gli alberi si rinnovano dall'interno verso l'esterno. Questa è una lezione spirituale tramandata dagli alberi all'umanità: la nostra fonte primaria di rinnovo deve prima essere attivata dall'interno.
Un'altra saggezza sacra proviene dalle radici. Afferrando saldamente la terra servono come ancore, formano un’unione con essa, attingendo nutrienti ed acqua. Anche l’uomo deve imparare a scavare in profondità, per trovare la propria spiritualità ed assicurarsi la mobilità verso l'alto.
Un'osservazione fondamentale sulle radici è che sono invisibili, più o meno allo stesso modo, il nostro progresso spirituale dovrebbe avvenire sotto strati superficiali ed essere nascosto alla vista dell'occhio comune.
L'Albero della Vita si trova in molte religioni, tradizioni spirituali e mitologiche di tutto il mondo.
Se pensiamo al Buddha, questi ha raggiunto la perfetta illuminazione trasformando tutte le tentazioni e le energie negative proprio sotto i rami protettivi del grande albero della Bodhi, riscattando così l’intero universo. Si racconta che L’Illuminato non riuscisse più a staccarsi da quell'albero e nella prima settimana resta seduto ai suoi piedi, continuando a meditare, ad affinare la sua scoperta. Trascorre quindi la seconda settimana a pochi metri dall’albero, contemplandolo, senza mai chiudere gli occhi, pieno di amore e di compassione, riconoscente verso colui che lo ha accompagnato al risveglio. Anche la sua nascita e morte sono legati alla presenza di alberi. La tradizione vuole che la nascita del Buddha sia avvenuta sotto un albero dove sua madre, si era fermata a riposare ed appena nato, tre divinità che abitavano l'albero si manifestarono per rendere omaggio al bambino. Durante la morte mentre Siddharta dichiarava le sue ultime volontà, circondato da migliaia di divinità, tutti gli alberi fiorirono fuori stagione, e dal cielo cadde una pioggia di fiori e di polvere di sandalo.
Nel cristianesimo, l'albero è visto sia come il veicolo attraverso il quale il peccato è venuto nel mondo, tramite il serpente che incoraggia l'umanità a mangiare dall'albero della conoscenza del bene e del male, sia come simbolo di redenzione, poichè Gesù fu crocifisso su una croce fatta da un albero. L'immagine di Cristo sulla croce è il simbolo del Salvatore del mondo sull'Albero della Vita.
Nella  kabbalah vengono utilizzate due immagini diverse,  un albero a testa in giù e uno a testa in su. Il primo, chiamato l'albero della Emanazione, nasce da un luogo divino, con radici che partano dall’alto ed il tronco ed i rami che si spingono verso l’umanità, penetrando il mondo dello spirito, della psiche e l'esistenza fisica. L'altro albero della vita, invece,  chiamato l'albero dell'Evoluzione o Iniziazione, cresce dal basso verso l'alto, sale verso la fonte, con radici nella terra e rami che crescono verso il cielo. Questo rappresenta la dimensione umana, l’individuo è obbligato a svegliarsi ed evolversi, salendo e penetrando il mondo della psiche, dello spirito, riprendendo così il contatto con la fonte divina.
Questo pendente può essere realizzato in diverse maniere, in tutti i casi, comunque, la sua struttura e il suo significato simbolico restano gli stessi: si tratta infatti di un albero nel quale rami e radici si intrecciano e si uniscono disegnando una struttura che sta proprio ad indicare la nostra personale ricerca spirituale e la complessa trama della vita, ove una pluralità di eventi, influenzati da una moltitudine di fattori, crea la realtà che noi percepiamo.
Per realizzare questo pendente che potrete regalare a tutte le persone per cui desiderate  augurare forza e protezione vi occorre:
  •  un filo di ferro di 14 cm
  •  6 pezzi di filo più sottile di 10 cm
  • Perline (dei colori e della grandezza che preferite)
  • pinza
Prendete il filo di ferro più spesso e con una pinza date la forma di un cerchio, per farlo potreste aiutarvi con un oggetto cilindrico.
Prendete i sei fili più sottili e dopo averli piegati nel mezzo, fissateli al cerchio che avete creato, cominciate, quindi, ad inserire le perline modellando i rami del vostro albero. Una volta creati i rami, avvolgete i fili in modo da creare il tronco della grandezza che desiderate e via via le radici che andrete a fissare all’altra estremità del cerchio.
Infine abbellite il vostro albero creando delle pieghe in modo da dargli un aspetto più naturale.

venerdì 27 novembre 2015

Confettura di mele cotogne e zenzero


Un ottimo metodo per smaltire gli eccessi di frutta di stagione è quello di preparare delle ottime marmellate e confetture. La mela cotogna veniva utilizzata dagli antichi greci, come rituale di offerta ai matrimoni perché considerata frutto sacro a Venere. Oggi, purtroppo, non gode della stessa fortuna essendo un frutto dimenticato e quasi introvabile. Tuttavia, se siete fortunati e disponete di mele cotogne, vale la pena provare almeno una volta nella vita questa confettura dal sapore insolito e persistente che darà una sferzata di energia alla vostra colazione.

Il procedimento è molto semplice. Spazzolate le mele cotogne per eliminare tutta la peluria, lavatele molto bene e, dopo aver eliminato semi e torsolo, pesate i frutti (questo consentirà di mettere la giusta quantità di zucchero, ovvero 400 g per ogni kg di frutta). Tagliatele a pezzettini e mettetele in una pentola coperte di acqua. Lasciate cuocere finché saranno morbide, a questo punto frullate la frutta, aggiungete lo zucchero, lo zenzero fresco grattugiato e ponete nuovamente sul fuoco. Essendo dei frutti molto ricchi di pectina la confettura impiegherà pochissimo tempo ad addensarsi raggiungendo ben presto un’ottima consistenza cremosa.
Infine, togliete la marmellata dal fuoco e riempite dei vasetti di vetro, precedentemente sterilizzati, chiudeteli e fateli raffreddare a testa in giù.
Il connubio tra mela cotogna e zenzero risulta un vero portento. Più che una confettura è una vera e propria medicina adatta a prevenire ed alleviare il raffreddore e i classici malanni autunnali ed invernali.
Le popolazioni asiatiche da millenni utilizzano lo zenzero per combattere raffreddore e febbre, infatti stimolando il sistema immunitario agisce come analgesico ed antidolorifico contro tosse e catarro. Inoltre l'azione riscaldante dello zenzero aiuta ad eliminare il muco dalle vie respiratorie. Grazie alle sue spiccate proprietà antinfiammatorie, allevia il mal di testa, riduce efficacemente i dolori articolari e muscolari ed allevia le infiammazioni di stomaco ed esofago.
Tra i malanni stagionali vi è anche la gastroenterite virale, un'infezione intestinale caratterizzata da diarrea acquosa, crampi addominali, nausea o vomito e a volte febbre. La principale qualità della mela cotogna è la ricchezza di pectina, una fibra alimentare solubile, con proprietà addensanti e stabilizzanti. Pertanto, vantando proprietà antinfiammatorie è una grande alleata dell'apparato digerente e può aiutare in caso di infezioni gastrointestinali.



lunedì 16 novembre 2015

Ballata del mare salato




Marsaxlokk è un tradizionale villaggio di pescatori nella regione sud orientale di Malta. Il nome, secondo alcuni, sarebbe legato al vento di scirocco che soffia dal Sahara, secondo altri, significherebbe porto a sud-est e deriverebbe da marsa che significa porto e xlokk che è la parola locale per sud-est .
 
Kalkara è un piccolo villaggio nella regione sud-orientale di Malta. Il nome deriva dalla parola latina calce poichè si pensa che vi fosse un forno di calce presente in quella zona sin dall'epoca romana.
 
Bormla chiamata anche Cospicua è la più grande delle tre città - Cospicua, Birgu, Senglea - con le quali si forma Cottonera un'area all'interno del Grand Harbour ad est della capitale La Valletta. Il nome Maltese Bormla deriva dal suo antico nome fenicio di Burmula, che significa un posto più alto rispetto alle aree circostanti.


San Pawl il-Baħar, Baia di San Paolo in italiano, è una città nella regione settentrionale di Malta. Il nome si riferisce al naufragio di San Paolo. Secondo la bibbia, San Paolo, nel suo viaggio da Cesarea a Roma, naufragò su un'isola che molti studiosi hanno identificato con Malta.


L'isola di Għawdex, in italiano Gozo, è situata a nord-ovest di Malta ed è la seconda più grande dell'arcipelago delle Isole Calipsee.
L'isola è stata a lungo associata con Ogigia, l'isola della ninfa Calypso descitta nell'Odissea di Omero. In questa storia, Calypso, in possesso di grandi poteri soprannaturali e innamorata di Ulisse, lo tiene prigioniero per un certo numero di anni, fino a quando finalmente lo libera per continuare il suo viaggio verso casa.
Nella zona di Dwejra si può ammirare la maestosa Tieqa Żerqa o Azure window si tratta di un arco in pietra naturale alto 50 m, formatosi milioni di anni fa, a seguito del crollo di una cava di calcare e grazie all'azione erosiva del mare. 
 
Il-Ġebla tal-Ġeneral, la Rocca del Generale è un massiccio scoglio di calcare alto 60 m compreso nell'arcipelago delle Isole Calipsee. I Cavalieri Ospitalieri scoprirono sulla sommità della Rocca un fungo con proprità benefiche, impiegato dai medici dell'epoca come rimedio emostatico per le ferite e come cura per la dissenteria. Probabilmente da questa particolare pianta deriva il nome inglese della rocca, Fungus Rock.

Kemmuna, Comino è compresa nell'arcipelago delle Isole Calipsee, il suo nome, secondo alcuni, deriverebbe dal cumino, una delle poche piante che un tempo riusciva a crescere sul suolo arido. Secondo altre fonti, invece, deriverebbe dall'arabo kimeni, che vuol dire adiacente, data la sua posizione fra Malta e Gozo.
Tra Comino e Cominotto si trova Bejn il-kmiemen la Blue Lagoon, una piccola baia con una meravigliosa acqua di un profondo colore blu.